Ho conosciuto Mirella nel 1960 a Mogadiscio, in Somalia. Quel primo impatto, ricordo, non fu molto felice, poiché evidenziava lo scontro di due personalità forti in un momento per entrambe sbagliato. Io ero arrivata all’informale gradualmente e la terra d’Africa aveva agevolato il mio modo di procedere ed ero sicura di ciò che andavo facendo. Lei stava ultimando un lavoro su Ben Shan che l’aveva impegnata moltissimo e non aveva particolare interesse verso quella forma espressiva.

Rientrata in Italia, nel ’68, mi sono trasferita a Roma e ci siamo riviste. Lei si era affermata nel campo della poesia visiva, io ero arrivata all’esperienza concettuale. Nel ‘76 ho tenuto la mia prima mostra a Roma, presso la Galleria Fiamma Vigo, e Mirella, che non vedeva il mio lavoro da molti anni, venne all’inaugurazione. Ricordo con precisione ed emozione quel momento: era con lei Sveva Lanza, e Mirella, dopo essere stata colpita dall’avvicendarsi dei miei moduli quadrati su fondali d’acciaio specchiante oppure da soffitto a pavimento, mi disse: “Gisella, sei bravissima. Quello che non ho fatto per te in questi anni lo farò adesso”. Me lo disse quasi con un senso di colpa. Si, perché lei nel frattempo aveva costituito un gruppo di artiste donne e curato alcune rassegne in cui portava avanti il discorso della poesia visiva, per la quale era diventata una specialista. Intuitiva, determinata, estremamente intelligente, aveva le idee chiare e in questo campo nessuno la batteva, era una pioniera in assoluto. Si trovava ad essere critico, artista, organizzatrice e curatrice di mostre in Italia e all’estero. Era instancabile. Quelle sue parole alla mia mostra hanno dato inizio ad un rapporto nuovo, straordinario, tra me e lei, un rapporto di scambi, di idee, di amicizia profonda. Mirella era stimolante, ascoltarla ti dava nutrimento, era come una fonte da cui sentivi il bisogno di andare ad abbeverarti. E’ stato anche un rapporto di collaborazione che è durato una vita: abbiamo fatto a quattro mani il libro oggetto Zero-seme. Zero-Seme è il libro-uovo – l’uovo era uno dei simboli a lei più cari, su cui lavorava da anni – un giorno mi disse:

“ Gisella, io il mio uovo l’ho realizzato in tanti materiali diversi, soprattutto in pietra e in marmo, mi piacerebbe farlo di carta e farne un libro. Lo facciamo insieme?  Ed è nato così Zero-Seme. Le piaceva dire che era “il libro che si legge dalle due parti”: si apre da una parte e con la sua sequenza di pagine diventa uovo, si apre dal dorso e diventa un messale.

Io ho ricevuto tanto da Mirella, e quello che ha dato a me lo ha dato anche alle altre artiste del gruppo: Anna Esposito, Maria Lai, Franca Sonnino, Elisabetta Gut, Giustina Prestento, Anna Torelli, Francesca Cataldi, Ida Gerosa, Sveva Lanza, Chiara Diamantini.

Lei ci ha dato la piena consapevolezza del nostro essere donne artista. In piena contestazione, negli anni settanta, è riuscita a non cadere negli stereotipi del femminismo ma al tempo stesso a creare attraverso di noi linguaggi comuni al femminile: il linguaggio delle trame e delle tessiture da una parte, e quello della poesia visiva dall’altra.  Il filo e la poesia, entrambi strumenti di espressione femminile per centinaia di anni, sono entrati anche grazie a lei nel mondo dell’arte contrapponendosi all’universo dei simboli e del potere maschile. La sua attenzione si è rivolta non solo a noi, al presente, ma anche al passato, e le dobbiamo il merito di aver recuperato e storicizzato le artiste italiane del futurismo, prima fra tutte Benedetta Marinetti, che grazie al prezioso saggio sulle donne del futurismo scritto assieme a Franca Zoccoli, e a importanti mostre in Italia e all’estero, hanno ripreso vita e colore dopo anni di oblio.

L’11 settembre del 2002, in occasione del primo anniversario dell’attentato alle Torri gemelle, ho realizzato un intervento sul territorio nel borgo di Bagnaia, in provincia di Viterbo, intessendo un filo elastico sui merli di una torre medioevale.

Ero partita da un telaio di legno, una torre cilindrica merlata, il “Cilindro mobile” e da questa ero passata al telaio umano con cui ho fatto performance e Flash mob in vari luoghi tra cui intorno alle Tombe etrusche della Necropoli di Cerveteri.

Mi mancava il Telaio urbano, una torre vera e Mirella me l’ha trovata: una torre intesa come immagine archetipica della cultura maschile. Voglio concludere citando proprio le parole di Mirella che hanno introdotto questo intervento, perché far parlare Mirella è forse meglio che raccontarla: “la torre, secondo la teoria psicanalitica, è una forma fallica, e un segno di potenza. Il filo è un segno mitico, femminile. Il filo della Parca, il simbolo della vita. E’ anche un simbolo domestico, dell’attesa di Penelope, della condizione femminile, del millenario pubblico silenzio della donna. E’ come se la donna, coi suoi poveri e innocui mezzi, qui offrisse un contributo riparatore strettamente poetico. Alla brutalità di un massacro di dimensioni ciclopiche, oppone un auspicio di convivenza e di pace.”

E Mirella prima di tutto questo filo lo ha intrecciato tra me e lei, e tra lei e noi tutte: il filo di Arianna, metafora della conoscenza che lei tanto amava, ci ha permesso di non perdere mai la strada e di condurre la nostra ricerca con lucida e condivisa passione. Ed è il filo che ci terrà per sempre unite.

Gisella Meo