“Rompere le parole – la poesia di Mirella Bentivoglio”

L’attuale mostra intende celebrare il proficuo rapporto che Mirella Bentivoglio (nata a Klagenfurt nel 1922) ha stabilito con Gubbio, originato in occasione della Biennale 76 del metallo, della ceramica e di altri materiali. Quell’edizione, curata da Enrico Crispolti, portava un’accezione aggiuntiva alla storica rassegna del metallo e della ceramica, ponendo l’accento su altri materiali e su progetti di cooperazione che valorizzassero la realtà locale della cittadina umbra. L’artista vi partecipò realizzando una Struttura simbolica in forma di uovo (L’Ovo di Gubbio); e una performance, la Poesia all’albero, nella quale il protagonista era uno dei tanti “oppielli” tradizionalmente impiegati come sostegno ai tralci di vite, nella campagna eugubina, prima che subentrassero i più moderni paletti di cemento. L’Ovo si presentava come concretizzazione in scala monumentale di un simbolo adottato sovente nella ricerca dell’artista, una scultura dal valore poetico (“All’adultera lapidata”) concepita espressamente per il luogo che l’ha accolta, come se quello stesso luogo l’avesse generata; valorizzava la pietra delle mura di Gubbio e la cooperazione con le locali maestranze artigianali. L’operazione dell’albero, celebrativa delle tradizioni e della cultura contadina del luogo, si presentava invece come transitoria e contingente, e si avvaleva del coinvolgimento a più livelli degli spettatori, i quali erano invitati a intervenire registrando su foglietti appesi all’oppiello le impressioni suscitate dall’insolito trapianto della presenza vegetale in Piazza Grande. Impressioni che hanno originato la “prima poesia che sia mai stata scritta da una città”, e che hanno dato seguito a tutta una serie di operazioni estetiche, dalla lettura, ad opera dell’artista, del componimento collettivo, nel Teatro Romano di Gubbio, all’interno dell’oppiello rovesciato (Arbor inversa, 1979), sino al libro d’artista ecologico Un albero di pagine (Eidos, Mirano, Venezia, 1992), o alla fusione in bronzo dell’oppiello (nella scultura Logos, 1993). L’Ovo, crollato nel 2004, a sua volta ha generato l’Operazione Orfeo: due spedizioni speleologiche (nel 1982 e 1985) all’interno della Grotta di Monte Cucco, presso Costacciaro, nelle quali un uovo di cemento era emblematicamente collocato come ringraziamento alla Terra per aver risparmiato, nonostante vari terremoti, la Struttura simbolica del 1976.

Quell’anno ha rappresentato un momento fondamentale per l’artista, la cui vocazione lirica, in grado di spaziare dalla pagina tipografica alla riqualificazione di un oggetto di recupero e di seconda mano, si è andata accrescendo di un’ulteriore connotazione, nel rapporto con lo spazio esterno, attraverso l’intervento sul territorio e la performance; pur conservando quel legame con le matrici alfabetiche e verbali che contraddistingue il presupposto al suo linguaggio espresso mediante simboli ed immagini archetipiche.

Proveniente dalla letteratura, e ben presto dedita alla critica d’arte, Mirella Bentivoglio ha fatto confluire nell’attività verbovisiva il suo duplice interesse per il linguaggio della parola e dell’immagine. Questo territorio di interstizio tra i due codici espressivi è stato dall’artista attraversato nelle sue molteplici declinazioni dai primi anni Sessanta[1]: nella “poesia concreta” (teorizzata in Sud America dal gruppo di osservanza poundiana dei Noigandres[2]), la quale fonda sua identità estetica sul linguaggio verbale, ed usa dunque la parola stessa come immagine; nella “poesia visiva” (tendenza nata in Italia a partire dal cosiddetto Gruppo 70 di poesia “tecnologica”), che fa interagire la parola con l’immagine creando un risultato nel quale le due forme si rafforzano vicendevolmente; nel poema-oggetto, una particolare espressione che si avvale di assemblaggi tridimensionali e affonda le sue radici nelle avanguardie storiche, per lo più dadaista e surrealista, ma anche futurista. Una diramazione di questa forma di espressione può essere rappresentata dal libro-oggetto, vale a dire quella specifica indagine estetica riferita al mezzo, alla funzione, alla forma e alla struttura libresca. Ambito nel quale Mirella Bentivoglio si è molto specializzata, divenendone anche una teorica e promotrice culturale[3].

Fin dal principio della sua indagine artistica, la Bentivoglio ha deciso di lavorare sul linguaggio verbale. In giovinezza pure amava dipingere, ed è anche dal versante dell’immagine, dunque, che avrebbe potuto approdare e risalire a quello della parola: ma ha scelto di fare il contrario[4]. È sulla parola che ha agito, conducendola nella sfera delle arti visive; rompendone le unità alfabetiche o ingigantendone i caratteri tipografici battuti a macchina; rintracciando le ambiguità del linguaggio e metaforizzandone visivamente i significati. La scrittura testuale è diventata la sua manualità; la metafora linguistica, la sua visibilità.

Questa capacità di rimandare fortemente all’immagine mediante la parola, prima di tutto l’artista l’ha fatta propria mediante la poesia in versi e la critica d’arte, due modalità di praticare la scrittura che, probabilmente, più di qualunque altra forma, promuovono il linguaggio verbale come efficace, immediato, qualificato sostituto di quello iconico. Ma è solo con le avanguardie logoiconiche, sviluppatesi soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, che il linguaggio delle parole ha assolto in sé ambizioni estetiche di carattere visivo.

Lasciata alle proprie spalle la soglia del verso[5], Mirella Bentivoglio non ha comunque mai smesso di continuare a operare della poesia, e connotare di valenze liriche, evocative, profondamente simboliche, i suoi lavori.

L’intento dell’artista è sovente quello di restituire creativamente l’identità del linguaggio verbale e visivo, di forgiarli e fonderli come a sovrapporsi e compenetrarsi in un linguaggio unitario. Caratteristica che in sé non è propria né della “poesia concreta” (che usa, come abbiamo detto, la parola invece dell’immagine[6], cogliendo nel materiale verbale i propri valori formali ed estetici) né della “poesia visiva”[7] (la quale, nell’interazione di parole e immagini, giunge piuttosto alla scissione dei due linguaggi, anziché alla loro identificazione); ma che è propria del linguaggio di questa artista. Linguaggio imparentato alla tendenza per così dire “visuale”, ossia centrato sulla visualizzazione di un’immagine a partire dal testo che vi rimanda – e che nel caso specifico dell’artista talvolta vale esattamente anche al contrario (visualizzare una parola dalla disposizione di immagini[8]) – facente riferimento a una pratica precisa – dai calligrammi alessandrini ad alcune tavole parolibere del futurismo – ossia di identificare parole scritte con immagini da vedere, ottenendo un linguaggio da visualizzare piuttosto che da leggere. L’aspetto singolare è che questa identità di immagine-parola avviene sia quando il lavoro dell’artista è di indirizzo “concretista”, sia quando è più propriamente “visivo”.

Consideriamo una poesia concreta come Gabbia (Ho), del 1966, realizzata come serigrafia nel 1969: si presenta come un susseguirsi di H verticali, ed è dunque la disposizione dei significanti, la struttura delle lettere, a trasformarsi nell’immagine che può esser colta come una prigione, ma anche come rielaborazione della griglia strutturale della scrittura che convenzionalmente il termine “gabbia” designa[9]. L’impiego del monema “Ho”, coniugazione del verbo avere, permette di far scattare l’associazione possesso-gabbia; ed è proprio il ripetersi della muta consonante, rispetto alla sola O rossa in basso, a visualizzare la prigione e sembrerebbe mutuare proprio dal suo impiego linguistico l’assunzione a segno di silenzio e di chiusura, dando origine all’immagine di una barriera, di una struttura vincolante. Se si confronta Gabbia con l’opera Wind, tratta da Die Konstellationen (1963) di Gomringer, artista cofondatore del movimento concretista alla cui formazione concorrono l’eredità del Bauhaus e il concretismo pittorico di Max Bill, si può notare che la dinamica delle lettere, che trasgredisce la convenzionale griglia di orizzontali e verticali della scrittura, risponde a una esigenza razionale, che consente di leggere la parola nelle varie direzioni. E se in questa disposizione pluridirezionale probabilmente Gomringer voleva alludere al soffio del vento, è anche vero che la rappresentazione del fenomeno meteorologico è di gran lunga in secondo piano rispetto al ruolo autonomo della parola stessa, ricomponibile, costruttivamente, nei diversi itinerari di lettura.

Nell’opera della Bentivoglio il segno linguistico impiegato corrisponde alla visualizzazione del suo significato. Al contrario, la ricerca concreta non attua alcuna corrispondenza di iconico e verbale. In tale indirizzo la parola assume sì il valore di immagine, ma senza raggiungere per questo alcun intento di figurazione. La parola diventa oggetto non perché tendente ad assumere forme tridimensionali, ma perché autonoma, liberata da ogni rapporto di dipendenza allo stesso modo in cui, nell’ambito dell’astrattismo pittorico, gli elementi della forma e del colore si emancipavano uscendo fuori dal tradizionale ruolo di veicolo alla rappresentazione.

In un’opera come Fiore nero, realizzata nel 1971, Mirella Bentivoglio si avvale invece di parole e immagine composte insieme, proprio come avveniva per i fondatori del Gruppo 70[10]di “poesia visiva”. Sorto nel ’63 coll’intento di contestare i media, i sistemi di comunicazione di massa, il linguaggio di questo gruppo si serve di quello stesso materiale che va a decontestualizzare e ad attaccare, smontando e rimontando parole e immagini desunte da quotidiani, rotocalchi, slogan pubblicitari, fumetti, letteratura commerciale e di consumo. Dando luogo a delle composizioni più o meno affollate, talvolta ricorrenti anche all’elemento della serialità, della moltiplicazione – caratteristica affine ai linguaggi pop e minimal – formulate da interazioni di immagini fotografiche e scritte di giornali, che tuttavia restano separate. Il Fiore nero della Bentivoglio è decisamente congeniale ai dettami della “poesia visiva”. Si tratta di un’immagine di cronaca, desunta dalla carta stampata, corredata di un apparato verbale, anch’esso della stessa natura. Nel rapporto tra immagine e testo, anche la predominanza del primo sul secondo termine di proporzione corrisponde alla caratteristica di tale indirizzo poetico. L’argomento di cronaca riguarda un avvenimento purtroppo ancora piuttosto attuale, il funerale di un ragazzo di colore, negli Stati Uniti, ucciso da un poliziotto. L’artista risolve l’equilibrio tra fotografia e didascalia del corteo funebre in una conchiusa soluzione formale, la quale si pone come immediata traduzione visuale del titolo: è lo stesso funerale a diventare quel “fiore nero” che in natura non esiste[11], ed è dunque la scelta semiologica del colore, nel denunciare “l’offesa recata dal razzismo alla natura”[12], a far scattare l’associazione tra il nero del lutto e quello dell’intolleranza.

Anche Il cuore della consumatrice ubbidiente (oca) (1975) si avvale del perno segno-colore, poiché il rosso richiama sia il logo commerciale della bibita impiegata, sia la tinta convenzionale del muscolo motore dell’anima. Si assiste nuovamente alla compenetrazione di immagine e parola: con ironia polemica, i caratteri verbali assumono le sembianze dell’insensata icona di pulsante devozione consumistica.

In Pagina Finestra (Piove) (1971) la poesia visuale non solo coincide con quella concreta, ma assume un ruolo importante anche la scelta oggettuale, perché il plexiglas, che ha la grandezza del foglio, allude alla trasparenza della finestra. Un precedente storico di questo lavoro si potrebbe rintracciare nella tavola Pioggia nel pineto antidannunziana di Paolo Buzzi[13]. In disaccordo col culto della bellezza passatista e l’evasione dal reale di D’Annunzio, la restituzione della lirica da parte del futurista è quella di una rappresentazione della pioggia tramite segni di virgole irreggimentati e distribuiti in modo equidistante sulla superficie. Tali segni si prestano, proprio come avviene nell’opera della Bentivoglio, alla rappresentazione ordinata delle gocce: ma la differenza non consiste solo nel fatto che la creazione dell’artista si pone a metà strada tra pagina e oggetto, mentre quella del futurista ha ancora luogo nello spazio deputato del foglio. Mentre per Buzzi il segno della scrittura (che potrebbe anche essere quello di un apostrofo) evoca la goccia solo per la sua approssimazione grafica, il segno adottato dalla Bentivoglio, specifico delle virgolette (perché doppio), rafforza il concetto di ripetizione che accomuna la funzione verbale al susseguirsi della goccia che cade. L’identità verbale-visiva che si dispiega tra concreto e oggettuale, permette ancora una volta soprattutto di essere assunta come visuale.

Fin dalla prima personale presso la galleria milanese di Arturo Schwarz (1971-72) Bentivoglio inizia ad esporre i suoi lavori tridimensionali. Dal linguaggio verbale – inteso come parole, frammenti di esse, segni di punteggiatura – il vocabolario dell’artista va accogliendo metafore oggettuali. La concretezza dell’oggetto indirizza l’artista verso la strada del simbolo, vale a dire della forma che elegge in sostituzione della concretezza della parola[14]. Ecco perché una ‘O’, iniziale di Origine (1971), è tradotta in un’opera dove tale vocale della parola rappresentata è costituita da un ex voto a forma di ventre gravido. Ecco perché la O, iniziale di origine, ha la forma dell’uovo, contenitore della vita. Il simbolo è per l’artista sedimentato nella forma della lettera, e nei significati cui si riferisce. Come in una sorta di percorso a ritroso, ella intende liberarlo dell’unità alfabetica che lo custodisce. Questa identità di simbolo (figura) e segno (lettera) in definitiva è espressione di quella compenetrazione iconico-verbale di cui si è detto. Anche la E[15], parola congiunzione, sarà da Mirella Bentivoglio adottata come simbolo d’elezione, interpretata, mediante plastiche sculture monumentali[16], come metafora delle relazioni umane (segno di congiunzione, simbolo del rapporto); la vocale richiama già nella sua forma il collegamento, proprio come il suo significato linguistico è mettere in connessione termini e proposizioni.

La ricerca di questa concretezza oggettuale porta inoltre l’artista ad accostarsi dal linguaggio della parola a quello della pietra. Lo stesso Ovo di Gubbio è un simbolo lapidario, espresso con materiale lapideo.

Così come il simbolo libro, cui l’artista ricorre in moltissime creazioni (realizzate, tra le altre, con carta, lattine schiacciate, pane, cartelli, foglie d’albero e quant’altro) assume sovente sembianze pietrificate, solidificate e sedimentate. Quando la forma del volume si forgia della materia del marmo, del travertino, dell’onice, della lava rappresa, l’artista intende dare forma a un significato potente poiché ella concepisce la pietra come materializzazione di quei dati acustici che hanno dato vita alle parole. È una costante del mistero di cui è avvolta l’origine il concepire la materia stessa come solidificazione del suono.

Piuttosto nota è la teoria scientifica del Big Bang[17], ma non solo. Ne Il significato della musica[18], Marius Schneider affronta il concetto di una “parola creatrice” che ha dato origine alla materia. Del resto “In principio era il verbo” è anche il passo che apre la Genesi, come se il Verbo, il “Logos”, che “era presso Dio”, fosse premessa di ogni inizio alle ancestrali soglie della vita e della storia. Come se la traccia di una presenza sonora nella materia fosse qualcosa di profondamente radicato nella nostra memoria primordiale.

Se la pietra come il linguaggio proviene dal suono, ecco perché è la pietra il linguaggio di un’artista così addentrata nella questione delle matrici del linguaggio stesso. E se la cultura, simboleggiata nel libro proviene da quella stessa pietra che il suono ha materializzato, ecco perché il libro è sua pietra.

Il simbolo – insieme alla materia stessa, che a sua volta simbolo diventa – nel frangere il linguaggio delle parole costituisce per l’artista un’insistita modalità per risalire alle genitoriali radici dell’espressione: “Rompo le parole per trovarvi il padre del padre del padre del significato che le ha concepite. Rompo le parole per trovarvi la madre della madre della madre della voce che le ha generate”[19]; dove la complementarietà del padre-significato, e della madre-voce, nell’atto di concepire (progetto-idea) e generare (materia-forma), riflettono quella calibrata alchimia tra contenuto e contenitore, significato e significante, conoscenza e natura, che Mirella Bentivoglio sovente è riuscita a rappresentare[20]. Dualità che del resto ricorre in titoli di opere (Uovo e portauovo – genesi e cultura, 1971, per esempio) e che viene espletata fin dagli esordi della fruttuosa relazione tra parola e immagine.

L’arista definisce Mater – concreta madre e materia – e Logos – istituzione, codice, parola e significato – le due componenti complementari chiamate continuamente a interagire nelle combinazioni dei suoi simboli d’elezione. L’uovo e il libro, nel Poema totale (1974) e in tutte le creative derivazioni fondate sul connubio del simbolo della vita e della conoscenza; l’uovo appeso all’oppiello, nel Simbolo totale (1984), una volta rovesciato e divenuto protettivo archetipo culturale: segno della crescita, l’albero allude alla conoscenza nei rami che si irradiano da un tronco comune, ed è dunque inteso come libro stesso, il quale materialmente dall’albero deriva. E quanto questo sia rintracciabile e depositato dentro il linguaggio, l’artista lo disvela ancora una volta col Libro etimologico (1985, materiale utilizzato è la corteccia, ossia parola provenente dal latino liber); e ci viene riassunto nell’Albero di pagine (1992), il libro d’artista che raccoglie la poesia collettiva e le operazioni originate dalla performance dell’albero pubblicato a Gubbio in Piazza della Signoria.

La cultura, per esser tale, deve essere anche coltura: coltivata, seminata, rinnovata; diversamente sarebbe solo istruzione, diversamente non sarebbe totale. E il Libro campo (agri-cultura) (1998), nel quale i solchi arati coincidono con le righe del volume aperto a metà, punto di contatto tra sperimentazione verbovisiva e opera di Land Art, è uno straordinario esempio, una metaforizzante concretizzazione del terreno fertile che trasforma la sterile istruzione nella produttiva conoscenza.

Nel Simbolo totale poc’anzi ricordato, il segno culturale dell’albero viene fertilizzato dalla presenza dell’uovo, pendente, quasi a evocazione della Sacra conversazione di Brera di Piero della Francesca. La citazione dell’artista di Borgo Sansepolcro ha esplicitamente luogo nel grande fotocollage L’albero-madre (2002), ancora una restituzione di Logos e Mater, di quella completezza che Mirella Bentivoglio invoca a custodia del globo terrestre (inserito in basso alla composizione). Rivisitata è ancora l’immagine dell’oppiello: capovolto, diventa casa, riparo, cerchio magico, simbolo di protezione. Il rafforzamento dell’archetipo protettivo è valorizzato da una soluzione formale che, nel collocare l’albero rovesciato al di sotto del manto misericordioso della Vergine, pone in risalto, di tale scelta espressiva, la simmetria, l’avvolgente sfericità e architettonico equilibrio, in continuità con quella concezione spaziale che ha trovato proprio nell’universalità pierfrancescana il cardine di un filone di astratta perfezione geometrica. Virata al negativo, l’immagine enfatizza i toni bruni che richiamano il legno e accentua quella anticipatrice visione metafisica del maestro del Quattrocento.

Mirella Bentivoglio riesce ad accordare simulacri e rappresentazioni che travalicano i secoli, e a restituircene l’attualità (si pensi ad esempio a un’opera come La profezia (da Babele a Ground Zero), 2001-2002, impostata sulla continuità formale tra dettagli della Torre di Babele di Bruegel il Vecchio, e un’immagine fotografica della strage delle Torri gemelle). La poesia dell’artista è fatta di immagini che rimano insieme, combinate non per rispondere a un nesso temporale, cronologico o consequenziale, bensì come dichiarazione di una inequivocabile associazione formale e semantica, simultanea e metaforica proprio come vuole essere l’espressione lirica.

Somiglianze come riemerse, disvelate dall’occasione del caso, che permettono di far individuare, di far palesare davanti allo sguardo dello spettatore quello sconcertante senso inatteso. Rintracciato tanto nell’accostamento citazionista di opere attinte alla storia dell’arte, quanto tra le venature della scrittura silenziosa di un marmo. Espressione, dunque, già nascosta nel visibile, o nel già noto, nel già fatto. Ma che è sempre sorgiva proprio come la parola poetica.

Rosaria Abate [in Roberto Borsellini e Graziella Cirri (a cura di), Gubbio 2016 – XXVI Biennale di Scultura, Gubbio (Perugia), Palazzo Ducale – Palazzo dei Consoli, 16 ottobre 2016 – 15 gennaio 2017, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano), 2016]

 

[1] Nella decade Sessanta, Mirella Bentivoglio detiene le prime partecipazioni a rassegne internazionali e pubblica i suoi primi lavori, come Monumento (De Luca, Roma, 1968), in collaborazione con la torinese Annalisa Alloatti. Ma l’artista assegna l’anno dei primissimi esperimenti verbovisivi al 1958. Si veda a tal proposito, la definizione per la voce Bentivoglio dell’ “Enciclopedia Tematica”, Espresso Grandi Opere, vol. I, p. 224.

[2] Gruppo costituitosi nel 1952, a San Paolo del Brasile, dai fratelli De Campos e Decio Pignatari; anticipato dalle teorizzazioni di Öyvind Fahlström e dallo svizzero-boliviano Eugen Gomringer, il gruppo si consoliderà nel ’54, in seguito a un incontro a Ulm tra Gomringer e Pignatari, come movimento concretista internazionale.

[3] Vi veda, tra le altre rassegne, il catalogo della mostra Il non libro – bibliofollia di ieri e oggi in Italia, Biblioteca Centrale, Palermo, 1985; e Il librismo – dal piedestallo alla scaffale, Fiera Campionaria di Cagliari, 1991.

[4] Probabilmente non è un caso, poiché la scrittura, nel risalire la strada dell’immagine, recupera la sua origine ideogrammatica.

[5] Mirella Bentivoglio ha dato alle stampe tre libri di poesia in versi: Giardino, pubblicato ancora col nome di famiglia, Bertarelli, per Scheiwiller di Milano, 1943; Calendario, per le Nuovedizioni Vallecchi, Firenze, 1968; JetP-68, Edikon, Roma, pubblicato nel 1976, quando l’artista già si esprimeva completamente nel territorio della verbovisualità.

[6] Da non confondere, naturalmente, con l’uso che ne fa l’arte concettuale, dove più volte la parola si sostituisce all’immagine, ma tale sostituzione non mira né a un effetto estetico né a una indagine semiotica, bensì a una definizione dell’attività artistica in grado di staccarsi dalle tecniche tradizionali.

[7]Bisogna tuttavia precisare che i termini “concreto” e “visivo” sono qui da me riferiti agli indirizzi specifici in seno alle sperimentazioni logoiconiche. Talvolta hanno avuto carattere generale, specie per la dicitura Poesia Visiva, che la Bentivoglio stessa ha adoperato, in qualità di teorica (per la voce in “Supplemento e aggiornamento dell’Enciclopedia Universale dell’Arte”, Edizioni Unedi, Fondazione Giorgio Cini, Roma, 1978, pp. 462-69), come comprensiva di tutte le manifestazioni tra parola e immagine. Una delle definizioni più attuali, invece, sulle tipologie degli indirizzi verbovisuali è quella di “poesia ottica”; si veda a questo riguardo il volume di Klaus Peter Dencker, Optische Poesie, De Gruyter, Berlin-New York, 2011.

[8] Basti pensare all’opera Pannello per finestra di città (agli alberi) (1971), dove sagome di varie tipologie arboree restituiscono la parola ‘Addio’.

[9] Un’altra caratteristica del linguaggio dell’artista, è quella infatti di evidenziare l’ambiguità semantica di termini, espressioni e locuzioni: dunque l’associazione a più significati è ricorrente, come è ricorrente anche il volerli mettere in connessione mediante una sorta di “cortocircuito” del senso.

[10] Nucleo che comprendeva, tra gli altri, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca, Emilio Isgrò, Sarenco, Luciano Ori, Michele Perfetti.

[11] La didascalia infatti recita: “Nera la bara, neri i cavalli, neri persino i fiori”. L’artista dunque rintraccia ed esibisce il fiore, mancante, di questo colore nella poesia stessa.

[12] Mirella Bentivoglio, Poesia visiva, in “Enciclopedia…, op. cit., p. 468.

[13] Apparsa su “L’Italia futurista” nel 1916.

[14] Dalla parola al simbolo sarà infatti il titolo di una mostra antologica tenuta nel 1996 al Palazzo delle Esposizioni di Roma. La copertina del catalogo di questa mostra riproduce il particolare, fortemente ingrandito, di un libro-oggetto che porta lo stesso titolo della mostra: sul volume chiuso è adagiata una piccola macchina da scrivere dalla quale non fuoriescono dei fogli, bensì  un uovo tridimensionale.

[15] La prima serigrafia E=congiunzione è del 1973.

[16] Nel 2003 Mirella Bentivoglio presenta un progetto con l’architetto Maurizio Petrangeli, supportato dal critico Gillo Dorfles, per la riqualificazione dell’area di Piazza Augusto Imperatore a Roma. In base al progetto, i segni di queste lettere in travertino, che sviluppano le ipotesi di lettura metaforizzanti le relazioni umane – già esposte in altri luoghi tra i quali la stessa Gubbio – verrebbero a collocarsi, in conformità alla funzione di congiunzione, tra “il presente attuale e il passato imperiale”. Tali lettere alfabetiche potrebbero essere utilizzate anche come sedili. Si veda Manuela Crescenti, Enrico Crispolti, Paola Rossi (a cura di), 38 Proposte per la sistemazione di Piazza Augusto Imperatore a Roma, Prostettive Edizioni, Roma, 2003.

[17] Mirella Bentivoglio esplicitamente dedica alcuni suoi lavori a questo tema dell’origine sonora della materia; per esempio in Materializzazione del suono: Grande Bang (1982), in cui sono sovrapposti tre dischi di pietra, ma a replica di quelli in vinile, simboli materiali e concretizzati del suono, i quali evidenziano la graduale trasformazione dalla superficie grezza a quella levigata; oppure nell’opera La culla del mondo, illustrazione di copertina del catalogo della mostra personale allo Studio Bocchi di Roma, nel 1993, scultura rappresentante un uovo, emblema dell’origine, coricato nell’incavo di un padiglione auricolare in gesso.

[18] Marius Schneider, Il significato della musica, traduzione dal tedesco e dal francese di Aldo Audisio, Agostino Sanfratello e Bernardo Trevisano, Rusconi, Milano, 1970.

[19] Sono concetti espressi a voce dall’artista, forse un appunto per una sua analisi, o genesi per un futuro lavoro creativo.

[20] Persino nell’analisi di Fiore nero, ad esempio, si è visto come vi sia concentrato un elemento naturale, il colore della pelle, con un elemento culturale, il segno del lutto.