Il mio incontro con Mirella Bentivoglio risale a un’epoca remota. Avevamo ricevuto tutte e due una borsa di studio per il Salzburg Art Seminar in American Studies. Era il 1958. La mia sarà una testimonianza particolare. Mirella non era ancora “la Bentivoglio”. Era una signora borghese colta che scriveva versi tradizionali. Comunque non il tipo della poetessa svagata, sognatrice e romantica; al contrario, era avida di conoscenza e curiosa di ogni sperimentazione. Posso dire di aver assistito alla sua nascita come artista, che avvenne proprio lì, nel magico Schloss Leopoldskron, sede del seminario. Sono perciò l’unica testimone oculare dei suoi esordi. E questi intendo raccontare brevemente piuttosto che fornire un’ulteriore analisi della sua produzione matura.

Lo Schloss, costruito nella prima metà del ‘700 è un’imponente residenza circondata da un vasto parco disseminato di statue settecentesche, curato ma senza turbare il suo aspetto naturale. Oggi è un albergo di lusso che ospita congressi, riunioni di affari, matrimoni, feste e altri eventi “combining historic ambience with modern equipment”. Allora non era proprio così: la historic ambience si godeva forse di più, ma non vi era traccia di modern equipment. Al pian terreno c’era un salone centrale con sontuosi caminetti rococò di marmo: mangiavamo alla luce delle loro fiamme oltre a quella di qualche candela sui tavoli. Accanto, la sala di lettura era la splendida Venetian Room rutilante di ori. Ma come si saliva agli alloggi al piano superiore lo stile era spartano puro: uno stanzone disadorno con una decina di brande per i maschi e un altro analogo per le femmine. Per tutti un’unica doccia; bisognava studiare ore particolari (le due del pomeriggio, l’una di notte) per trovarla libera.

Mirella dichiarò subito che per lei la sistemazione era inaccettabile ma aggiunse anche che non c’era problema, avrebbe provveduto lei stessa a trovare una soluzione. Detto fatto trovò da affittare una stanza in un gruppetto di case abbastanza vicine allo Schloss. Per raggiungere il micro-villaggio dal cancello della Residenza bisognava però attraversare un bosco. Ciò non scoraggiò minimamente Mirellla che tutte le sere, quando finiva la sessione dopo-cena, verso le 11, faceva la sua passeggiata notturna con la sola compagnia di una torcia.

Quella sessione del seminario era dedicata non solo alle arti visive ma anche allo spettacolo: cinema e teatro. Le lezioni, i dibattiti erano entusiasmanti e ci aprivano un mondo nuovo. C’erano visiting professor dagli Stati Uniti ma anche registi, sceneggiatori, attori. Mirella annunciò che avrebbe contribuito con una sorpresa e una sera, all’ora stabilita, vedemmo uscire da dietro una colonna, Charlie Chaplin in persona. La sua breve imitazione di Charlot, con personali varianti, fu una vera performance ante litteram, rivelatrice della sua vocazione a emergere dalla pagina per esplorare lo spazio.

Il parco dello Schloss si estendeva fino alla riva di un piccolo lago. All’inizio (primi di marzo) il laghetto era gelato e ci si poteva camminare sopra senza rischi; attraversandolo si raggiungeva velocemente il centro di Salisburgo. Ma anche quando non essendo più praticabile diventò necessario seguire la riva, la città non era lontana. Spesso con Mirella nelle ore morte ci andavamo, continuando il nostro fitto parlare lungo il corso di Salisburgo che percorrevamo avanti e indietro all’infinito. Il caso volle che a Roma abitassimo molto vicino e anche grazie a questo, il nostro dialogo e dibattito, quasi quotidiano, si prolungò ininterrotto. Sarebbe durato tutta la vita.

L’esperienza di Salisburgo aveva stimolato l’interesse di Mirella per le arti visive; al ritorno decise di scrivere una monografia su Ben Shahan, non a caso un artista nel quale la scrittura, spesso presente nella pittura americana (insegne di negozi, cartelli…), è particolarmente importante e, talvolta, diviene parte integrante dell’opera. Pubblicò il libro con l’editore De Luca nel 1963. Ma non era ancora la sua strada. Poco dopo, verso la metà del decennio, un giorno il marito Teo Bentivoglio (del quale Mirella avrebbe usato il cognome come firma d’artista) le porse un giornale indicando un articolo e disse: “penso che possa interessarti”. Era un articolo sulla poesia concreta brasiliana ideata dai fratelli Augusto e Haroldo de Campos con l’amico Decio Pignatari (Mirella avrebbe in seguito conosciuto personalmente i de Campos) che poneva l’accento sull’aspetto visuale della parola, delle singole lettere e del puro segno grafico, disgregati e assemblati in vario modo. Per Mirella fu una folgorazione che segnò l’inizio del suo percorso.

Aggiungo solo due parole, facendo un salto di quasi quarant’anni, per accennare a quella che è stata la nostra più importante collaborazione, le futuriste: un tema al quale ci dedicammo a lungo, pubblicando vari libri e saggi, e al quale eravamo approdate per caso. Un’editrice di New York con la quale eravamo in contatto perché collaboravamo alla rivista “Women Artists News” ci chiese di scrivere un libro su tale argomento: Mirella per le artiste che avevano operato fra linguaggio e immagine ed io per quelle che avevano scelto in prevalenza la pittura. Fu un lungo lavoro di ricerca che portò a riscoprire un mondo quasi dimenticato. Ne sono emerse figure di grande interesse alle quali da allora sono dedicati scritti e mostre.