Ben ti voglio

 

 Conosco da diversi anni Mirella Bentivoglio, e non è facile raccontare una donna di tale portata senza imbattersi nel rischio di sfiorare la ridondanza e la retorica; ma realmente Mirella Bentivoglio è una forza della natura: diretta e schietta, dalla risata argentina e dalla mimica accattivante, si muove tra il suo consolidato disordine solida come una roccia, anche oggi che gli anni l’hanno resa un po’ più fragile[1].

Artista, critico, organizzatrice di mostre, poetessa in versi, prima ancora che operatrice nelle neoavanguardie verbovisive, è sempre stata una coerente ritrattista della parola, e una personalità dalle spiccate doti comunicative. Acuta, colta, lucida e puntuale. Mi riferì che una volta, per farle un appunto, un noto critico le disse che si comportava come se fosse straniera, e non italiana; cosa che, convertita di segno – proprio come fa lei stessa nei suoi plurisignificanti lavori logo-iconici – ella assunse invece a complimento; e che, presa “alla lettera”, corrisponde in definitiva col principio della sua biografia, dal momento che per puro caso l’artista si trovò a nascere in Austria, nella cittadina di Klagenfurt.

A testimonianza della sua ricca vita, colma di incontri e di esperienze stimolanti, restano molte fotografie nel suo archivio privato: vi sono alcuni scatti che la ritraggono mentre stringe la mano a Ungaretti, mentre prende parte a un ricevimento accanto a Giulietta Masina, o è sul terrazzo della sua casa romana assieme al pittore lituano-statunitense Ben Shahn.

Altre fotografie mostrano i suoi travestimenti, come quella in cui, da ragazza, indossa la maschera di una diavoletta, probabilmente in occasione di un Carnevale; o giovanissima, ancora in collegio, scimmiotta Hitler con gli inconfondibili baffetti. Gli stessi baffetti che la portano, più in seguito, nei più tardi anni Quaranta, ad assumere le sembianze di Charlot[2], dando luogo probabilmente, tra le stelle filanti e le maschere degli altri intrattenuti, a una sua prima performance (tradotta, in anni piuttosto recenti, nelle pagine estensibili di un libro d’artista[3]).

Spesso sorride, di un sorriso smagliante, proprio come nella foto nel suo giardino della casa di villeggiatura a Viserba (1940), dove si cimenta a stendere liriche e prose con la fedele macchina da scrivere, e si ferma un istante per la posa: con i capelli semiraccolti e le gambe affusolate, sembra quasi un’attrice dei telefoni bianchi.

Tanti incontri, aneddoti e riflessioni, è lei stessa ad asserirli in questo volume; ma c’è un ricordo in particolare sul quale mi piacerebbe soffermarmi.

Una mattina di qualche anno fa eravamo nella sua cucina, e mi raccontava dei suoi primi esperimenti di Poesia Concreta. Esperimenti inconsapevoli. Mirella è sempre stata dentro, intorno, in mezzo al linguaggio; e con la sua macchina da scrivere iniziava a comporre già negli anni Cinquanta parole da vedere; lettere che divenivano corolle di fiori, e assumevano sembianze “visive” disponendosi sul foglio con criteri altri rispetto alla convenzionalità della scrittura.

“Una volta mio marito tornò a casa, sventolò il giornale che come sempre aveva comprato, dicendomi: quello che tu fai esiste”.

Fu il consorte a presentarle le avanguardie della scrittura in modo veramente ufficiale, tramite una notizia, probabilmente di una esposizione, apparsa sulla carta stampata. Mirella ha sempre sostenuto, fin da quando la incontrai la prima volta, di essere molto riconoscente verso il marito riguardo il proprio lavoro; con il suo ruolo di Professore, Ludovico Matteo Bentivoglio le ha insegnato e trasmesso rigore e correttezza nello scrivere; attraverso i viaggi in cui Mirella accompagnava il compagno, nel corso della sua carriera di studi legislativi internazionali e di cooperazione con l’Onu, ha avuto la possibilità di conoscere paesaggi e stili di vita che sicuramente hanno fertilizzato e aperto oltremodo la sua mente creatrice.

Quella mattina Mirella dichiarava di aver appreso l’esistenza stessa della Poesia Concreta mediante un articolo mostratole dal marito. Ripeteva di dovergli tanto, di dovergli «tutto»; e con aria nostalgica si rammaricava, quasi, di non esser mai riuscita a fare qualcosa, nel suo lavoro, per ricordarlo. Così io le feci notare che proprio nel suo lavoro aveva fatto la scelta che più di tutte poteva ricordarlo e omaggiarlo, sempre, dal momento che soprattutto come artista lei esibiva il suo nome, che era il nome del marito, anziché il proprio ad essere legato alle sue opere, i suoi testi critici, le sue tante testimonianze. “Non avevo mai pensato a ciò che mi dici, grazie, mi conforta molto”.

Mirella, nata Bertarelli, ha scelto di portare il nome del suo uomo – sposato nel 1949 – invece di quello della famiglia, invece del nome del padre che, seppur amatissimo, non è stato scelto nella sua esistenza[4].

“Quando eravamo fidanzati, e chiedevo a Teo perché volesse sposarmi” – mi ha accennato all’episodio in più occasioni – “lui mi rispondeva: perché tu sai trovare i quadrifogli”. Particolarità reale, poiché tra le carte di Mirella spesso mi è capitato di vederne più di uno essiccato e incollato sui fogli; ma anche una simbolica, bellissima dichiarazione, come a indicare “perché tu sei la mia fortuna”, o “perché tu possiedi una dote speciale e rara”. E se era lui a rivolgerle la stessa domanda – “E tu, perché vuoi sposarmi?” – lei gli ribadiva, ironicamente: “Per il tuo cognome”.

Probabilmente allora Mirella non poteva immaginare quanto avrebbe sposato quel cognome, quanto del suo compagno avrebbe portato sempre con sé, con-dividendo i frutti della sua creatività professionale. Creatività che spesso è stata accostata all’alchimia, quella particolare filosofia dello spirito che unisce il principio maschile e femminile con la finalità della conoscenza, che coglie nel matrimonio degli opposti il mezzo di elevazione superiore. Elevazione come arte; e “Bentivoglio”, che tautologicamente è un pensiero d’amore, ne è divenuto la sua firma[5].

 

Rosaria Abate

in L’assente, a cura di Salvatore Luperto, edizioni Milella, Lecce, 2017

 

[1] (N.d.R.) Il testo è stato steso qualche tempo prima della scomparsa dell’artista.

[2] È curioso che Mirella Bentivoglio, inconsapevolmente, abbia fatto ricorso, in situazioni diverse, ai due personaggi contraddistinti dalla stessa caratteristica; l’analogia tra i baffetti di Hitler e quelli di Charlie Chaplin era stata oggetto, da parte dello stesso regista britannico, del tema della celebre pellicola del 1940, Il grande dittatore. Le foto in cui Mirella Bentivoglio assume le pose del vagabondo chapliniano potrebbero essere state scattate verso la fine degli anni Quaranta, mentre la sua interpretazione di Hitler risale al periodo della primissima adolescenza: nel 1933, riferimento dell’ascesa al potere del dittatore nazista, Mirella aveva 11 anni.

[3] Si tratta del libro d’artista a leporello dal titolo Un libro coi baffetti, progetto grafico Il Mazzocchio, Jesi (Ancona), 2011, dove Mirella Bentivoglio ha riordinato in sequenza gli scatti in cui è ritratta nelle vesti di Charlot.

[4] Inoltre Mirella Bentivoglio ha sempre ritenuto priva di fondamento la scelta “femminista” di alcune donne sposate di adottare il cognome di origine, come posizione indipendente rispetto al marito: “Perché, il padre non è dunque un uomo?”.

[5] La visualizzazione del cognome è oltretutto stata oggetto di uno storico lavoro dell’artista: mi riferisco al collage del 1973 La firma, nel quale viene evidenziato il dittongo finale “io” contenuto in “Bentivoglio”; il tema della visualizzazione dell’identità-cognome è stato affrontato creativamente anche ne Il volto e il nome, la maschera e i suoi lacci, collage del 1989.